Il centro clinico di Napoli: attività, dati e patologie rilevate
Le attività svolte dal centro clinico di riferimento della Regione Campania, e i dati sui pazienti da esso seguiti, sono stati l’oggetto della 2a parte dell’intervento del Dott. Giovanni Nolfe, Responsabile Struttura Centrale Psicopatologia da Mobbing e Disadattamento Lavorativo ASL Napoli 1, al convegno del 17 marzo scorso a Firenze.
Il centro clinico diretto dal Dott. Nolfe è sicuramente un modello di riferimento per gli altri centri clinici regionali.
Il modello di intervento del centro clinico di Napoli
Ecco allora cosa facciamo nel nostro centro clinico.
Apparteniamo al Dipartimento di Salute Mentale: il nostro primo obiettivo è quindi la cura della persona e, soprattutto, la cura psicologica.
Facciamo interventi che durano almeno 6/12 mesi. Quindi non sono interventi brevi, non sono interventi puntiformi, perché a noi non interessa produrre un certificato che serva ad aprire una causa legale, o meglio, non ci interessa che sia solo questa la nostra cura.
Cerchiamo di effettuare un intervento integrato, dove al sostegno psicologico, alla psicoterapia, al sostegno farmacologico, al sostegno clinico, alla psicodiagnosi, si associa anche una valutazione di tipo medico-legale e sulla relazione causale perché, a nostro modo di vedere, è importante integrare questi 3 livelli.
Chi viene da noi sente di avere subito, a torto o a ragione, una grave ingiustizia.
Comprendere, interpretare, sostenere la persona dal punto di vista clinico ed effettuare, con strumenti adeguati, la valutazione medico-legale, significa sostenere la persona in tutti questi ambiti.
In qualche caso sarà prevalente il disagio, in qualche caso sarà prevalente la questione medico-legale, però cerchiamo di fare un po’ tutto insieme.
Quello che noi non riusciamo a fare, perché la struttura è ancora molto debole, sono gli interventi sulle famiglie e gli interventi nelle aziende, gli interventi di prevenzione del disagio lavorativo o i focus group, cioè interventi mirati e specifici nei luoghi di lavoro.
Abbiamo introdotto anche un sistema per valutare il peso medico-legale, il peso della causalità che il disagio lavorativo svolge nella genesi della patologia psichiatrica che osserviamo con una procedura che è per noi, nel nostro centro, ormai abbastanza standardizzata.
Per chi ha interesse, ecco il riferimento bibliografico per approfondire questi temi.
Si tratta di un ‘articolo pubblicato nel 2013 nella rivista “Medicina del Lavoro” con il titolo “Mobbing, costrittività organizzative ed effetti bio-psico-sociali: una valutazione integrata. Dati preliminari di validazione del Questionario-napoletano sul Disagio Lavorativo (Qn-DL)”.
Gli autori sono: Giovanni Nolfe, Claudio Petrella, Maria Triassi, Gemma Zontini, Simona Uttieri, Alessia Pagliaro, Francesco Blasi, Antonella Cappuccio e Giuseppe Nolfe.
Crescita dei pazienti negli ultimi anni
Questo grafico raffigura la crescita del numero dei nostri pazienti negli anni.
Tenete presente che la nostra è una struttura di secondo livello: arrivano pazienti che sono già valutati da sportelli periferici, da altre agenzie sanitarie, medici di base, medici del lavoro, associazioni sindacali, oltre ai pazienti che ci raggiungono anche in modo autonomo.
Noi purtroppo, quindi, interveniamo sui “vasi rotti”, quando il disagio ha già fatto danno.
Come vedete, la linea di tendenza negli ultimi anni tende ad essere verticale: c’è un accesso sempre maggiore di pazienti, malgrado ci sia una difficoltà sempre più grande per i pazienti a sostenere le proprie ragioni nelle sedi legali.
Le differenze di genere
Questi, nel grafico, sono i valori numerici assoluti: la linea nera rappresenta i maschi, la rossa le femmine.
Vedete come negli ultimi anni il numero dei pazienti maschi e delle femmine tende ad avvicinarsi. Sono numeri grezzi.
Se li correggiamo con i differenti tassi di occupazione, che naturalmente sono a svantaggio del sesso femminile, vediamo che la percezione soggettiva del disagio lavorativo tende ad essere sempre più diffusa tra le pazienti donne.
Quindi se le donne, rispetto agli uomini, non hanno ancora lo stesso salario, non hanno ancora lo stesso potere, rispetto alla patologia lavorativa cominciano, purtroppo, a non essere più discriminate.
Abbiamo, quindi, una equivalenza dei sessi rispetto al disagio ma non rispetto ai diritti, se solo pensate al fatto che 1 donna su 5 non riprende più il lavoro dopo il parto.
Età e genere
In questo grafico osserviamo le fasce d’età dei nostri pazienti.
Vedete come maschi e femmine tendono ad essere omogenei rispetto alla variabile “età anagrafica”.
In passato, specie nei primi anni del nostro lavoro, noi osservavamo differenze di genere.
Il lavoro era più spesso causa di patologia psichiatrica nel sesso maschile rispetto al sesso femminile.
Invece oggi questa differenza tende a scomparire.
In passato veniva colpita soprattutto la fascia di età più avanzata nel ciclo della vita lavorativa dei maschi mentre per le donne c’era un’esposizione al rischio in fasi più precoci.
Ora, invece, c’è una certa omogeneizzazione. Il disagio psichico da lavoro malato tende a diventare sovrapponibile per uomini e donne.
Settori e attività lavorativa
C’è differenza tra settore privato e settore pubblico e ci sono differenze tra le professioni.
Esiste naturalmente una quantità enorme di categorie lavorative.
Nei nostri studi e nelle nostre analisi abbiamo preferito distinguere 3 grandi raggruppamenti:
- professioni d’aiuto
- professioni a elevato contenuto tecnologico e produttivo
- professioni ad elevata interazione interpersonale.
Questo perché, per esempio, lavorare in sanità vuol dire tutto e non vuol dire niente. Una cosa è lavorare nel pronto soccorso chirurgico di un’ospedale di frontiera come il Loreto Mare, altra cosa è fare l’autista, altro ancora è lavorare nell’amministrazione sanitaria dove i fenomeni sono completamente diversi.
Parleremmo di sanità ma parleremmo in realtà di lavori che, nella sostanza, sono profondamente diversi.
Disturbi psichiatrici collegati al lavoro
Nella nostra casistica abbiamo soprattutto disturbi da stress e da trauma.
In passato c’è stata una spiccata tendenza a far prevalere il concetto di disturbo post traumatico da stress (secondo me con una interpretazione non proprio corretta) nel quale possono essere ricondotti tutti i disturbi dell’adattamento, associati ad ansia e/o ad umore depresso.
Tutte le patologie, quindi, che trovano in un evento traumatico o in un evento stressogeno la loro causa.
Nella nostra casistica sono ben distinguibili i disturbi dell’umore e soprattutto i disturbi depressivi.
La depressione maggiore è una delle patologie più fortemente connessa al disagio lavorativo.
E poi abbiamo i disturbi da ansia.
Come forse sapete, l’INAIL riconosce le patologie correlate al lavoro ma le inserisce in un ambito extratabellare, una specie di “refugium peccatorum”, una sorta di limbo delle patologie.
Riconosce come patologie indennizzabili solo il disturbo da stress post traumatico e il disturbo da adattamento. La base scientifica di questa affermazione non esiste.
Tutta la ricerca, e anche i nostri dati all’interno di queste ricerche, ci dimostrano che se esiste una patologia che si correla maggiormente al disturbo da lavoro, cioè la patologia psichiatrica che più direttamente è collegata al lavoro, essa è proprio la patologia depressiva, la depressione maggiore.
In qualche modo quello che accade nei luoghi di lavoro è qualche cosa di assimilabile al lutto.
Quelle che vengono da noi sono persone che hanno perso un elemento vitale della propria vita: in maniera reale, nel caso siano state estromesse dal lavoro, o in maniera “fantasmatica” se da un certo tipo di lavoro sono passate al nulla o, da un lavoro che poteva essere ragionevolmente dignitoso, sono passate ad una condizione vessatoria.
Quindi, se esiste una patologia che si correla più frequentemente al disagio lavorativo, questa è soprattutto la depressione maggiore.
E’ ciò che emerge dai nostri studi e che trova conferme in ambito internazionale.
Qui i riferimenti bibliografici: per vederli, ingrandire l’immagine qui a fianco.
Fine 2a parte della relazione del Dott. Giovanni Nolfe
Testo a cura di Nunzia Pandoli