Crisi fuori e crisi dentro: psicoterapia della precarietà

Psicoterapia della precarietà convegno 2015

Il profondo disagio che deriva dalle trasformazioni sociali che modificano le condizioni di vita, portando incertezza, senso di provvisorietà, insicurezza, impossibilità di vedere un futuro migliore richiede interventi mirati: la psicoterapia della precarietà.

La crisi fuori e la crisi dentro: due facce della stessa medaglia

Il disagio psicologico contemporaneo non è più riconducibile alla sola dimensione storica familiare e alla difficoltà a rinascere dalle proprie matrici originarie, ai difficili rapporti interpersonali entro i quali la ricerca di una propria individuazione si scontra con il rapporto con l’altro.
Il disagio psicologico ha una matrice sociale ed è in rapporto con eventi reali e con le trasformazioni sociali che stanno modificando radicalmente la condizione di vita delle persone.

Il nuovo disagio nasce, dunque, dal confronto con limitazioni sempre maggiori delle possibilità di espressione e di realizzazione di sé, ma anche dal confronto con l’idea di futuro, che è portatrice di vissuti di profonda incertezza, di precarietà e di provvisorietà di tutto ciò che ci sta intorno.

La precarietà non è dunque composta da un singolo fattore, come quello legato al lavoro che manca, o da un lavoro che da flessibile si trasforma il più delle volte in precario con continue interruzioni di reddito e intrappolamento in settori meno qualificati del mercato.

La precarietà, anche per i più giovani, consiste certo in apprendistati che non hanno mai fine e che si trascinano fino alla soglia dei trent’anni e oltre, ma è fatta anche di una condizione generalizzata di incertezza della vita che non si riesce più a basare su dei fondamenti certi.

Una condizione esistenziale basata su di un’insicurezza diffusa che non permette di fare progetti a lungo termine, di mettere su famiglia e su cui non si può fondare un’immagine di sé come persona che potrà in qualche modo continuare a essere progettuale e a raggiungere una forma soddisfacente di autorealizzazione.

Il malessere psicologico è anche il risultato di un’aspettativa disattesa che proviene dall’ambiente sociale che si fa ostile e assente proprio nel momento in cui dovrebbe essere più presente, dovrebbe fornire quel sostegno che è necessario per poter compiere l’impresa faticosa di rialzarsi e di tornare a combattere per trasformare la propria condizione, per riconsiderare lo svantaggio e vederlo come un’occasione trasformativa.

Ciò che viene a mancare, in fondo, è un’aspettativa di poter disporre di un sostegno ambientale che ripristini una base sicura su cui ricostruire un senso di fiducia in se stessi e nel futuro. Queste mancanze trasformano la crisi reale che sta fuori di noi in una crisi psicologica che abita dentro di noi.

1. Nuove patologie

Le trasformazioni sociali si accompagnano a cambiamenti personali e interpersonali la cui portata non è sempre riconoscibile e definibile a priori, poiché essi richiedono un certo tempo per essere compresi e integrati all’interno della personalità.
La capacità di riorganizzare il proprio ambiente è un’attitudine spontanea che è presente nell’individuo fin dalla nascita, ma quest’attitudine ha sempre bisogno di un ambiente facilitante per attivarsi, di un’interazione feconda con l’ambiente sociale in cui sia l’individuo singolo che l’ambiente sociale diventano i coautori di un processo di cambiamento della cognizione di sé e di nuovi concepimenti del mondo e della realtà (Winnicott,1969; Fonagy, 1990; Napolitani, 2004).

Se questa interazione non è presente, l’individuo diventa un essere isolato che subisce i cambiamenti senza poterli ri-organizzare dentro di sé e, di conseguenza, non è in grado di produrre nuovi visioni del mondo che lo aiutino a orientarsi nella realtà.

La difficoltà di rappresentazione del mondo esterno e di mentalizzazione delle esperienze affettive, che si vivono nel rapporto con la realtà sociale, può essere ricondotta alla mancanza di quello che Donald Winnicott qualifica come spazio transizionale, cioè uno spazio concepitivo in cui si scoprono le cose che ci accadono, le emozioni che si vivono in rapporto alle cose che ci accadono, e i diversi significati che gli attribuiamo e che diventano per noi le rappresentazioni simboliche, mentali, di quella realtà che abbiamo in precedenza esperita.

Se questo spazio mentale non esiste diventa necessario costruirlo.

Chi si confronta con la perdita imprevista delle sicurezze sociali e occupazionali, con una povertà che limita lo spazio vitale, vive questi eventi come un eccesso di realtà che impedisce il funzionamento della mente.

In altri termini, utilizzando concetti teorici che derivano dagli studi sull’attaccamento (Bowlby, 1980; Fonagy, 1991), si potrebbe sostenere che quello che viene temporaneamente a mancare nelle persone in crisi da precarietà è la funzione riflessiva della mente.

La funzione riflessiva va qui considerata come quella funzione che pertiene in modo specifico all’ambiente originario della prima infanzia, quello che sostiene il bambino che si confronta con eventi buoni e cattivi e che mostra una sua predisposi-zione empatica a comprenderne i vissuti emotivi. Solo attraverso una funzione riflessiva svolta dall’adulto di riferimento, che si è rappresentato più e più volte i senti-menti provati dal bambino, il piccolo sarà a sua volta in grado di rappresentarseli den-tro di sé, cioè riuscirà a compiere un’operazione di mentalizzazione e a costruire una sua singolare teoria della mente, come la definiscono gli studiosi delle teorie dell’attaccamento (Bowlby, 1988; Fonagy, 1991, 1993).

Anche l’individuo adulto che si confronta con una situazione destabilizzante ha bisogno di un Io vicariante che funzioni da mediatore, esattamente come fa l’ambiente affettivo di sostegno della prima infanzia per il piccolo dell’uomo. Se in una fase di crisi del soggetto questa funzione non viene svolta da nessuno, in maniera particolarmente attenta, l’individuo che vive un disagio di natura sociale si trova in una condizione psicologica che è equiparabile in qualche modo a quella del bambino dell’infanzia che ha perso una base sicura e non sa più dare un nome ai vissuti e alle esperienze emotive che colorano il suo mondo interno e quello esterno.

2. La funzione di Io vicariante e il sostegno terapeutico

Le persone arrivano alla consultazione psicologica nel momento in cui la crisi personale ha tracimato dai problemi materiali ed economici a quelli psicologici.

Favorire il processo di mentalizzazione diventa allora l’obiettivo principale di un trattamento psicoterapeutico.

Il terapeuta può fungere da ambiente facilitante per favorire il funzionamento mentale del paziente che vive una crisi da eccesso di realtà.

la presenza del terapeuta stesso, la disponibilità empatica a contenere e a riconoscere mentalmente la sua sofferenza, sono funzioni che favoriscono la capacità di rappresentare i fatti e le cose che accadono e di dargli dei significati simbolici.

Un individuo, anche se oramai è un adulto, in certi momenti e in certe condizioni può trovarsi di nuovo in difficoltà di socializzazione e percepirsi come un soggetto fragile, che può stare al mondo solo a condizione che ci sia un ambiente facilitante che lo sostiene e che quest’ambiente continui a essere presente in maniera stabile attorno a lui almeno per un certo tempo.

In determinate situazioni di tensione sociale, è quasi naturale che ci siano dei riflussi nei processi di socializzazione.

Se un individuo dipende da un ambiente sociale, o lavorativo, e si sente esposto a una condizione di forte insicurezza, è molto probabile che viva una minaccia di perdita di un’appartenenza rassicurante che gli dà significato, che rappresenta un riconoscimento di valore complessivo di sé,.

E’ qualcosa che va ben oltre la messa in crisi della sua identità professionale.

Inoltre, il processo che porta alla perdita di significato avviene senza che l’individuo abbia la possibilità di appellarsi a una qualche forma di contrattazione, di dialogo con le persone o con le istituzioni, per ricercare una qualche soluzione o, almeno, per ricevere temporaneamente una forma di comprensione del disagio che sta provando.

3. Psicoterapia della precarietà

La psicoterapia della precarietà consiste in un trattamento che permette alla persona, traumatizzata dalla crisi sociale e conseguentemente personale, di recuperare una certa padronanza degli eventi e delle realtà, attraverso una temporanea padronanza del rapporto con il proprio terapeuta.

Questo tipo di padronanza deve fornire al paziente l’illusione di poter disporre di un controllo onnipotente della relazione in cui è il terapeuta che si mette disposizione del paziente e fa delle cose per lui in modo tale che possa usufruirne nelle condizioni limitate in cui si trova.
Nella terapia della precarietà si cerca di far vivere al paziente una legittima e breve esperienza di onnipotenza in cui i poli dell’esperienza relazionale, l’immaginario e il simbolico, il concepimento soggettivo del mondo da un lato e la percezione oggettiva del mondo dall’altro, sostanzialmente si sovrappongono più volte (fase transizionale).

Questa condizione deve sussistere il tempo necessario per permettere il riassorbimento dell’esperienza traumatica, qualunque sia la natura specifica del trauma che si è vissuto in relazione a cambiamenti sociali complessi, fino ad arrivare alla ripresa d’interesse verso il mondo esterno.

Nella psicoterapia della precarietà, si cerca di ristabilire la funzione riflessiva temporaneamente perduta (la capacità di rappresentarsi se stessi e il mondo esterno per come si presentano).
Si cerca inoltre di favorire l’uso della mente del terapeuta come una base sicura si cui poggiare il propri concepimenti del mondo (Bowlby, 1988).

L’uso della mente del terapeuta non ha un carattere propriamente cognitivo, non è nemmeno una situazione definibile come un aiuto per favorire un riadattamento psicologico alla realtà, è piuttosto un modo di fornire un sostegno affettivo temporaneo al paziente affinché tutto ciò che è reale e incontrollabile diventi per un certo tempo padroneggiabile e quindi integrabile nello psichico.

Il processo avviene tramite il sostegno fornito dal terapeuta e dalla sua rappresentazione mentale degli eventi minacciosi che restano come sospesi nella mente del terapeuta, in attesa di essere riflessi in quella del paziente, come avviene comunemente tra il care-giver e il bambino nelle prime fasi dello sviluppo psicologico.

Creare CENTRI specializzati nella psicoterapia della precarietà

In molte città esistono strutture private che erogano servizi di psicoterapia a basso costo ma non sono specializzati nella psicoterapia della precarietà.

Chi soffre per la precarietà o per il timore di perdere il lavoro ha bisogno di servizi specializzati.

Sono pochi i casi in cui basta l’ascolto e il sostegno psicologico offerto in modo gratuito, in pochi incontri, dalle associazioni di volontariato e dagli sportelli di matrice sindacale.

In genere i processi di riadattamento psicologico alla realtà, il recupero del controllo sugli eventi, lo sviluppo delle capacità di resilienza richiedono un lavoro più lungo che può essere individuale e/o di gruppo ma sempre basato su un rapporto di fiducia con il terapeuta.

E’ evidente che servizi di questo tipo devono essere sostenuti da convenzioni che favoriscano l’accesso a soggetti in disagio sociale che hanno scarsa disponibilità economica.

Ma si tratterebbe di investimenti utili a prevenire l’aggravarsi delle patologie da precarietà, un investimento sul benessere futuro.
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Questo articolo del dott. Luciano Di Gregorio è stato distribuito nella cartellina del Convegno “DIGNITA’ NELLA PRECARIETA'” organizzato dalla nostra associazione nel 2015. 

Convegno 2015

Luciano Di Gregorio, psicologo e gruppoanalista, socio ordinario della Società Italiana di Gruppoanalisi (SGAI), svolge attività di psicoterapia a Siena e di formazione a Firenze.
E’ autore di numerosi articoli apparsi su riviste di settore e di diversi libri tra i quali:
(2003) Psicopatologia del Cellula-re – Dipendenza e possesso del telefonino
(2006) La fatica di essere autentici – Nostalgia di appartenenza e desiderio di individualità
(2012) Le connessioni pericolose – Sesso e amori virtuali
(2014) L’ho uccisa io. Psicologia della violenza maschile e analisi del femminicidio
(2017) La società dei selfie. Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone(Intervista).

Il dott. Di Gregorio è stato per alcuni anni il tutor degli psicologi che hanno effettuato presso la nostra associazione il tirocinio propedeutico all’iscrizione all’Albo degli Psicologi.


Testo a cura di Nunzia Pandoli

 

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